Santo Pietro
Santo Pietro è una frazione del Comune di Caltagirone, in provincia di Catania, sita nel cuore di un
vasto bosco di querce che costituisce una riserva naturale orientata.
Nel 1941 vi fu costruito un campo di aviazione come pista alternativa all’aeroporto di Comiso e di
Gela-Ponte Olivo, e venne largamente usato per gli attacchi contro le basi britanniche sulle isole
maltesi.
Il 27 giugno 1943, durante la preparazione delle truppe statunitensi in vista dello Sbarco in Sicilia,
il comandante della 7ª Armata USA, generale G.S. Patton tenne un rapporto agli ufficiali della 45ª
Divisione di fanteria nel corso della quale diede disposizione di uccidere – senza accettare le loro
eventuali offerte di resa – i militari nemici che resistessero ancora quando le fanterie statunitensi
fossero giunte a 200 iarde, circa 180 metri, di distanza da essi.
« We’re not just going to shoot the bastards, we’re going to cut out their living guts and use them
to grease the treads of our tanks. (Non solo spareremo ai bastardi, ma taglieremo loro gli intestini
ancora vivi, e li useremo per ingrassare i cingoli dei nostri carri armati) ».
« Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira
tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di
giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali! ».
E così fu.
La prima strage ad opera del Capitano Compton.
L’aeroporto di Santo Pietro era presidiato da una guarnigione di avieri comandati dal Capitano
Mario Talante, un battaglione di artiglieri al comando del Maggiore Quinti ed un reparto di truppe
tedesche. Dopo intensi bombardamenti l’aeroporto fu accerchiato all’alba del 14 luglio 1943. Gli
avieri, la sera prima, furono divisi in due gruppi. Con certezza un gruppo, armato con i moschetti
91, fu lasciato in una casamatta nel tentativo di contenere l’avanzata degli americani. Furono
presto presi prigionieri ed uscirono dal rifugio con le mani alzate, mentre qualcuno sventolava
un fazzoletto bianco in segno di resa. Ai prigionieri furono tolti vestiti, scarpe, oggetti di valore e
subito messi in fila per essere fucilati per ordine del capitano John Compton. Di questo gruppo si
salvarono solo due militari italiani (il caporale Virginio De Roit e il soldato Silvio Quaiotto) che ai
primi colpi riuscirono a darsi alla fuga e a nascondersi presso il torrente Ficuzza.
Il mattino del 15 luglio il tenente colonnello W.E. King, un cappellano della 45ª Divisione, trovò
una fila di cadaveri sulla strada che dall’aeroporto portava al paese di Biscari, a pochi metri da una
grande quantità di bossoli americani, per un totale di 34 italiani e 2 tedeschi. Il tenente colonnello
King trovò altri cadaveri allineati, quindi, presumibilmente, fucilati, prima di giungere all’aeroporto,
dove venne a conoscenza di un ulteriore gruppo di militari italiani fucilati.
La seconda strage ad opera del Sergente West
Un altro gruppo di prigionieri incolonnato per essere condotto nelle retrovie ed interrogato dagli
uomini dell’intelligence fu affidato al Sergente Horace West con 7 militari. Durante il tragitto
si aggiunsero altri 37 prigionieri di cui 2 tedeschi. Dopo circa un chilometro di marcia furono
obbligati a fermarsi e disporsi su due file parallele mentre West, imbracciato un fucile mitragliatore,
aprì il fuoco compiendo il massacro. Al centro della prima fila c’era l’Aviere Giuseppe Giannola
che fu l’unico superstite, che in una relazione inviata al Comando Aeronautica della Sicilia ricordò:
« Fummo avviati nelle vicinanze di Piano Stella ove fummo poi raggiunti da un altro contingente
di prigionieri italiani del R° esercito, e questi ultimi in numero circa di 34. Tutti fummo schierati
per due di fronte – un Sottufficiale americano, mentre altri 7 ci puntavano con il fucile per non farci
muovere, col fucile mitragliatore sparò a falciare i circa 50 militari che si trovavano schierati. Il
dichiarante rimasto ferito al braccio destro (rimase) per circa due ore e mezzo sotto i cadaveri, per
sfuggire ad altra scarica di fucileria, dato che i militari anglo americani rimasero sul posto molto
tempo per finire di colpire quelli rimasti feriti e agonizzanti. »
(dalla relazione dell’aviere Giuseppe Giannola del 4 marzo 1947 al Comando Aeronautica della
Sicilia)
Giannola, quando pensò che gli americani se ne fossero andati via, alzò la testa nel tentativo
di allontanarsi, ma da lontano qualcuno gli sparò con un fucile colpendolo di striscio alla testa.
Cadde e si finse di nuovo morto. Restò immobile per circa mezz’ora fin quando, strisciando
carponi, raggiunse un grosso albero. Vide degli americani con la croce rossa al braccio e si
avvicinò. Gli fu tamponata la ferita al polso e alla testa e gli fu fatto capire che da lì a poco sarebbe
sopraggiunta un’autoambulanza che l’avrebbe trasportato al vicino ospedale da campo. Poco dopo
vide avvicinarsi una jeep e fece segno di fermarsi. Scesero due soldati, uno con un fucile che gli
domandò se fosse italiano. Alla risposta gli sparò colpendolo al collo con foro d’uscita alla regione
cervicale destra, risalì in macchina e si allontanò.
Poco dopo sopraggiunse l’autoambulanza che lo raccolse trasportandolo all’ospedale da campo di
Scoglitti. Due giorni dopo fu imbarcato su una nave e portato all’ospedale inglese di Biserta ed altri
del Nord Africa. Rientrò in Italia il 18 marzo 1944 e ricoverato all’ospedale militare di Giovinazzo.
Al termine del conflitto, in data 4 marzo 1947, presentò al Comando Aeronautica della Sicilia un
resoconto di quanto accaduto, ma rimase inascoltato. Negli anni che seguirono continuò inutilmente
a far sentire la sua voce, fino a quando, assistito dal figlio Riccardo, raccontò tutto al procuratore
militare di Padova il quale aveva aperto un fascicolo per la storia di un altro sopravvissuto al
crimine di guerra consumato negli stessi luoghi per mano del Capitano Compton.
La procura militare statunitense iniziò gli accertamenti sull’episodio e rinviò a giudizio due graduati
del 180º Reggimento, il sergente Horace West (Compagnia A) ed il capitano John Compton
(Compagnia C).
Fu accertato che il sergente Horace West aveva ricevuto l’ordine di trasferire al comando di
battaglione 37 prigionieri nemici (uno era sfuggito ai controlli del tenente colonnello King) ma,
giunti in un uliveto, li aveva personalmente fucilati con la sua arma di ordinanza. Il sergente West
si difese sostenendo che gli ordini dal Comando d’Armata erano di uccidere i militari nemici che
non si fossero arresi immediatamente, sulla base del discorso già citato del Generale G.S. Patton,
riportato ai gradi inferiori dal comandante del 180º reggimento con le stesse parole. La Corte
Marziale, comunque, giudicò West colpevole, se non altro per aver ucciso militari che ormai
avevano già ottenuto lo status di prigionieri e lo condannò all’ergastolo. Ciononostante non fu
incarcerato ma continuò a prestare servizio nell’esercito americano.
Anche il capitano Compton si riferì al discorso del gen. Patton per giustificare le sue azioni, dato
che aveva fucilato i militari italiani, circa quaranta, subito dopo la loro resa. Compton concluse
la propria difesa sostenendo di aver agito sulla base di istruzioni del Comandante di Armata,
generale con tre stelle ed una grande esperienza di combattimento. Compton fu assolto, ma cadde in
combattimento l’8 novembre 1943 presso Montecassino.
Il generale G.S. Patton, in un colloquio successivo, 5 aprile 1944, col tenente colonnello C.E.
Williams, ispettore del Ministero della Guerra sui fatti di Biscari, ammise di aver tenuto un discorso
abbastanza sanguinario, pretty bloody, ma di averlo fatto per stimolare lo spirito combattivo della
45ª Divisione di fanteria, che si trovava per la prima volta sotto il fuoco nemico, negando comunque
di aver incitato all’uccisione di prigionieri.
Solo nel settembre 2009 il superstite Giuseppe Giannola fu ricevuto al Quirinale dal Generale
Rolando Mosca Moschini, Consigliere Militare del Presidente Giorgio Napolitano, al quale
consegnò una lettera appello, rivolta al Presidente della Repubblica, nella quale chiedeva che si
facesse di tutto per individuare il luogo ove furono seppelliti i suoi commilitoni, per restituire
l’onore ai giovani sterminati quella mattina del 14 luglio 1943, cancellando quindi quei nomi
dall’elenco dei dispersi e/o dei disertori.
Il 14 luglio 2012 è stata apposta a Santo Pietro una targa di marmo che ricorda i nomi di tutti
i soldati italiani uccisi nella strage e quattro tedeschi. La manifestazione è stata organizzata
dai comuni di Acate, Caltagirone, Vittoria e Santa Croce Camerina, in collaborazione con
l’Associazione Culturale Storica Lamba Doria.